L'infinito azzurro spazio
Da alcuni anni mi interesso di fotografia vernacolare, preferibilmente databile tra gli anni 30 e gli anni 80.
Come spesso accade, le fotografie recano sul retro frasi, dediche, commenti, saluti... una narrazione aggiuntiva che nella vita dell’oggetto-immagine è spesso considerata secondaria.
Decido di accogliere e lasciare sedimentare queste informazioni ‘laterali’ e lentamente diventano per me predominanti.
Attraverso la pratica del ricamo lascio che le parole sedimentino sulla tela e sedimentino dentro di me.
Il ricamo evoca il lavorìo della memoria: da un lato i ricordi si stratificano in modo inconsapevole, quasi involontario. Dall’altro invece si fa di tutto per averne cura, conservando oggetti di qualsiasi natura.
Il ricamo, da momento domestico e femminile, diventa nel mio lavoro dominante e rivelatorio. Mi serve per entrare nel lato nascosto della fotografia, che per me è come il lato oscuro della luna, analizzare la grafia, entrare nella dolcezza delle parole che attribuiscono un senso tutto diverso all’immagine, come una didascalia poetica.
Nell’allestimento, infine, i due mondi si incontrano e confrontano, come un Giano bifronte che però, in questa occasione, può guardarsi negli occhi.
Il riferimento alla divinità romana non è casuale: così come Giano guardava contemporaneamente il passato e il futuro, qui si misurano tradizione – ricamo – e con- temporaneità – fotografia – in un dialogo complesso che ruota intorno al concetto di identità.